COUNSELING – AIUTA A RITROVARE SERENITA’ E BENESSERE?
Counseling: riconoscimento dei problemi, ricerca delle cause e evoluzione del proprio percorso verso il raggiungimento della serenità.
Tra i vari argomenti trattabili allo Studio Psiché di Milano con la Dr. Francesca Minore, qui ci interessa esplorare gli obiettivi dell’intervento di counseling ed i vantaggi di effettuare il percorso al fine di riconquistare la serenità.
Scegliere di effettuare un percorso di counseling permette realmente di ritrovare la serenità? E come ciò si rende possibile?
IL COUNSELING – DI CHE SI TRATTA
Il termine definisce una relazione d’aiuto volta a sostenere e potenziare le risorse personali del cliente,* ad aiutarlo a stimolare la sua capacità di reazione e le sue competenze per uscire dalla situazione di crisi in cui versa. Come ben espresso da C. Rogers, ogni individuo è dotato di peculiari abilità utili a superare le difficoltà. Il compito del counselor consiste nel farle emergere e nel porre la persona in grado di usufruirne al meglio (R. May).
In modo particolare, il counseling integrato definisce uno specifico approccio di lavoro basato sull’uso di più modelli teorici** al fine di offrire al cliente la strategia più consona alla sua personalità e alle sue specifiche esigenze. Tale orientamento sviluppa infatti dall’idea che vada sempre rispettata l’unicità della persona e che quindi non sia di utilità disporre di una sola griglia di lettura. Come dire, è il percorso a dover essere adattato al soggetto e mai il contrario.
IL CONDIZIONAMENTO DELLA NOSTRA STORIA
La visione che abbiamo di noi stessi, degli altri e dell’ambiente circostante è fortemente condizionata dalla nostra personale storia di vita. (E. Berne)
Nel mio lavoro, ogni qualvolta un cliente comincia a raccontare ciò che lo addolora, che gli crea malessere, la prima necessità che sento, è tesa a comprendere con quali occhi guardi alla realtà che va descrivendo. Conoscere i suoi punti di riferimento, le convinzioni, i permessi che si dà, i divieti a cui sottosta, i valori che lo sostengono, mi permette di entrare gradualmente nel suo mondo. Di sentirlo empaticamente. Di leggere il suo vissuto dalla sua stessa prospettiva. Ritengo non vi sia altro modo per poter stabilire autenticamente la relazione, né tanto meno di dare il mio contributo affinché il lavoro possa dirsi, alla fine, davvero efficace.
Tutto ciò può apparire scontato. Non credo lo sia. In quanto essere umano, il professionista rischia in ogni momento di offrire involontariamente una propria interpretazione di quanto la persona porta nel colloquio. Di guardare all’evento narrato con i propri occhi, il proprio vissuto, la propria storia. Ma quando accede, è il percorso stesso a venir compromesso. Di più, ritengo faccia danno. Perché il cliente può avvertire la discrasia tra il suo percepito e quello dell’operatore e sentirsi invaso, non compreso o in errore.
COUNSELING: RISPETTO ED ACCOGLIENZA
Guardare con gli occhi della persona al suo vissuto deve quindi essere un atteggiamento costante.
E ancora, è fondamentale che il professionista accolga la sua visione delle cose con il massimo rispetto ed assoluta accoglienza (C. Rogers), il che significa con la consapevolezza continua che il proprio modo di essere è relativo, imperfetto e frutto pure della propria storia. Infatti, per quanti strumenti possegga, egli rimane – e deve rimanere – un essere umano che ne incontra un altro. Nessuna competenza può alterare questa profonda verità.
Le ragioni che conducono i clienti al counseling sono certo di varia natura. Necessità di risolvere un nodo conflittuale di cui non riescono a venire a capo, desiderio di effettuare un percorso di crescita personale, eventi esterni che hanno prodotto crisi e sofferenza, bisogno di esplorare atteggiamenti soggettivi che la persona percepisce ripetitivi e poco funzionali al raggiungimento della propria serenità…
In tutti i casi, le modalità di reazione individuali sono ben poco correlate alla circostanza esterna che ha generato il malessere. Di norma si tende a credere il contrario, qualcosa del tipo “è successo questo fatto, che mi ha costretto a”. A ben guardare invece, a condizionare la nostra risposta agli accadimenti non è tanto il dato oggettivo, ma la lettura che diamo dello stesso, effettuata questa sulla base della nostra personale griglia cognitivo-emozionale che va sotto il nome di copione. In pratica “questo è il modo in cui vivo quanto successo, il che mi fa reagire così”.
Fa un’enorme differenza.
Perché, fosse vera la prima ipotesi, i comportamenti individuali dovrebbero essere del tutto omogenei. Oppure di due tipi – alcuni adeguati, altri no. Al contrario, ogni possibile reazione soggettiva assume significato e valore in quanto, a darle senso, è il peculiare mondo interiore del cliente. Ne consegue che il focus dell’osservazione si sposti dal concetto di adeguatezza/inadeguatezza “ho fatto bene o male?” a quello di benessere/malessere che la risposta comportamentale ha generato, e quindi “il mio modo di rispondere agli eventi, mi fa star bene o male?”.
L’ORIGINE DEL COPIONE DI VITA
E dunque, se è la percezione personale della realtà a generare il disagio, ne consegue la seguente domanda: qual è l’origine delle norme, delle convinzioni, dei permessi e dei divieti che il singolo individuo matura e a cui fa riferimento?
La sua storia. Il suo vissuto più intimo ed antico.
Il contesto familiare in cui siamo cresciuti ha determinato, fin dalla più tenera infanzia, la nostra peculiare visione del mondo. Ogni bambino ha necessità, prima ancora di esprimere se stesso, di ricevere amore ed accudimento. Per ottenerlo, egli adegua il proprio modo di sentire istintivo a quello delle sue figure di riferimento. Così facendo riceverà infatti protezione ed approvazione. A loro volta, i riconoscimenti ottenuti andranno a rinforzare i suoi comportamenti adattivi. Esiste dunque una fondamentale differenza tra il temperamento innato ed il carattere (F. Pers). Il primo infatti, definisce la natura spontanea ed istintiva. Il secondo consegue invece da modalità cognitive ed affettive apprese nell’ambiente in cui la persona è cresciuta.
L’ESPLORAZIONE DEL COPIONE DI VITA
Ciò detto, quando un cliente decide di intraprendere un percorso di counseling a causa di un malessere che lo sta affliggendo, è di utilità che l’operatore lo sostenga nell’esplorazione del suo personale copione. Egli sarà così in grado di riconoscere la griglia inconsapevole a cui fa riferimento nell’affrontare l’esistenza. Si potrebbe obiettare che ciascun individuo è già ben cosciente di quali siano i suoi valori, le sue credenze, le norme a cui aderisce. Questo è sicuramente vero. Interessante e terapeutico è però scoprirne la provenienza. In quanto non sempre si tratta di convinzioni proprie. A volte sono piuttosto introietti rimasti indigeriti, che stanno a far danno. Si tratta di modalità cognitive ed affettive apprese, non frutto di un’integrazione spontanea.
ESEMPIO CHIARIFICATORE
Durante una sessione di counseling, una paziente racconta il suo quotidiano. La realtà in cui giornalmente si muove è minacciosa e cupa. Nella sua percezione, gli occhi del mondo sono puntati su di lei. A valutarla e giudicarla. Pronti a coglierne un’assodata inadeguatezza. Per di più, il mestiere di vivere le risulta ancora più oneroso perché sente di dover essere costantemente vigile, all’erta “Si sa – dice – i pericoli per una donna sono dietro l’angolo. Quando esci per strada da sola, non sai mai chi puoi incontrare. In realtà – continua – non sai mai cosa ti può succedere in generale, se quella sera a casa ci tornerai. Chi può dirlo? Un incidente può capitare, le pare?”
A guardare l’esistenza con gli occhi della cliente, si prova sì ansia e paura. Nel suo mondo, la catastrofe è sempre imminente. Tangibile e concreta per chiunque, entrando in quel mondo, osservi da lì le cose. Per questo la donna merita accoglienza e comprensione. Perché per lei quella percezione è reale.
Il passo successivo, da compiere insieme nel counseling per ripristinare la situazione di benessere da lei tanto auspicata, consiste nell’esplorare come, tale percezione si sia sviluppata.
E’ così che comincia un percorso introspettivo estremamente affascinante, in cui questa persona ha modo di riconoscere l’origine dei suoi pensieri e del suo sentire, per poter alla fine scegliere con consapevolezza se quel modo di essere le è confacente, se le appartiene e soprattutto se favorisce la sua serenità. Perché, qualora non la permetta o addirittura la ostacoli, lei può, ormai adulta, decidere di utilizzare modalità più funzionali confidando nelle sue risorse.
Ho accompagnato molti clienti in questo viaggio esplorativo. Ho potuto ammirare la determinazione, lo stupore curioso, il desiderio riacceso a voler camminare nella propria esistenza in modo più personale e con rinnovato entusiasmo.
Afferrare finalmente il timone della propria metaforica imbarcazione e solcare fiduciosi le onde della vita come provetti marinai, conferisce sempre una sensazione di vigore e potenza.
Il che è percepibile a livello intimo, ma anche visibile esteriormente. Persone abbattute, piegate su stesse, dalla voce flebile, dai tratti del viso stanchi, hanno potuto riacquisire una postura eretta, un tono più vigoroso, un volto più rilassato. E soprattutto sono tornate a sorridere.
Di certo però, il cambiamento implica sempre una ragionevole dose di fatica.
COLPA DI MIO PADRE E DI MIA MADRE?
Una volta compresa l’origine delle proprie zavorre mentali, dei divieti ad essere se stessi, degli introietti nocivi, capita che le persone attribuiscano ad altri significativi della propria vita il disagio che le attanaglia “se mio padre non avesse amato solo mio fratello, forse crederei più in me stesso” “Se mia madre non fosse stata tanto ansiosa, oggi avrei meno paura a rischiare” e via di seguito.
In realtà, salvo rare, estreme eccezioni, tutti i genitori hanno desiderato il meglio per i figli. Magari non sono stati capaci di dimostrarlo o di essere concretamente di supporto alla loro realizzazione. Per immaturità, per incapacità, perché loro stessi non disponevano gli strumenti idonei a farlo. Meglio dire, per via della loro storia.
A loro volta sono stati bambini. Forse trascurati, forse viziati, forse non amati, forse non svezzati. Sono infinite le varianti sul tema. Vero è che, trovandosi tra le braccia il loro figliolo, in qualsiasi condizione sia avvenuto, tutti loro hanno sperato il meglio, hanno nutrito le più rosee aspettative per lui. Poi – lui – ha cominciato a farsi grande. Ad andare nel mondo baldanzoso o incosciente come spesso i giovani. Ed è allora che il mare si è ingrossato. Che le onde si sono alzate. Sembra facile vivere… Niente di più probabile che si sia ammaccato, ferito, fatto proprio male. Ed il meccanismo si è inceppato. Ha cominciato a non funzionare. Possibile che, guardando indietro deluso ed amareggiato, questo adulto abbia visto loro, i genitori, ed a loro abbia attribuito la colpa?
UN POTENZIALE A DISPOSIZIONE
E’ indubitabile che gli effetti dell’educazione incidano in maniera preponderante sulla formazione dell’individuo. Allo stesso tempo è corretto affermare che ogni persona dispone di potenzialità proprie da sviluppare e a cui sempre attingere. Di errori ogni famiglia ne compie molti. Divenuti adulti però, sta a noi assumerci la responsabilità del cammino. E qualora si inciampi, si rimanga impantanati o confusi, è utile guardarsi profondamente dentro. A cercare le risorse più adatte per illuminare la strada. Prendersela con i fantasmi del passato è, in questo senso, un alibi determinato dalla sfiducia in se stessi.
IL RUOLO DEL COUNSELOR
A tale proposito il ruolo dell’operatore è a mio parere duplice. Da un lato si concretizza nel sostenere il cliente ad accrescere la propria stima di sé ed autonomia. Dall’atro, non può prescindere dalla manifestazione di una costante e ferma capacità di contenimento, di accoglienza piena ed empatica della delusione, delle ferite, delle recriminazioni che il cliente eventualmente esprime verso la famiglia d’origine. Non per giustificarlo, non per coccolarlo infantilmente, Piuttosto perché egli ha bisogno di far emergere le proprie emozioni negative, tutte, per essere poi in grado di abbandonarle e costruire da sé il nuovo.
Ciò che intendo è mirabilmente descritto nel dialogo tra lo psicoterapeuta ed il suo giovane cliente nel film di R. Redford “Gente Comune”.*** Durante una seduta, finalmente il giovane paziente esprime il rancore ed il dolore verso la madre. Il professionista cerca allora di fornirgli una prospettiva più obiettiva ed il ragazzo esclama “Posso provare ciò che provo?! Mi è permesso?!” A che il terapeuta comprende e risponde con un laconico ma accalorato – sì.
POSSO PROVARE CIO’ CHE PROVO?!
Sì. E’ importante che le persone assumano la responsabilità della propria vita, che imparino a camminare da protagonisti nell’esistenza. Prima però è lecito gli venga concesso di liberarsi della ruggine. Una necessità affinché gli antichi cerchi possano esser chiusi. Al contrario, se tale possibilità viene loro negata, se li si conduce immediatamente alla ragionevole comprensione, il rischio è che rimangano testardamente impantanati nelle recriminazioni. Giustamente, vien da dire, poiché esse non son state né accolte né riconosciute.
E quindi, un percorso di counseling può dirsi completato con successo, se il cliente ha acquisito consapevolezza circa la sua storia ed è riuscito conseguentemente ad assumersi la piena responsabilità di se stesso (F. Perls). Il che, in pratica, significa apprendere ad autolenirsi ed autosostenersi in qualunque circostanza.
Arrivarci richiede fatica, si diceva. Già.
Perché trovare altrove le ragioni delle nostre incapacità è semplice. Attribuirsene il carico un po’ meno: implica il riconoscimento della propria imperfezione; lo sforzo di andare a scovare un nuovo modo di essere che non è mai immediatamente accessibile; infine, richiede la ferma volontà di abituarsi a schemi di pensiero ed emotivi adattivi, maturi, ma mai esperiti prima.
Questa fase del percorso comporta la caparbietà necessaria a voler crescere, a divenire pienamente se stessi. Ma poi, a se stessi si rinasce sempre. E quando avviene, quando nelle proprie peculiari risorse si impara a confidare, ogni tempesta diventa gestibile.
Studio Psiché – chi siamo
Negli ultimi anni, dato l’incremento di richieste, lo Studio Psiché di Milano ha messo a punto un servizio online di counseling e psicoterapia specificatamente costruito per funzionare come le sessioni in presenza in termini di approccio metodologico, tecniche e protocolli utilizzati. Tutto ciò al fine di garantire un intervento produttivo ed efficace volto a ripristinare una situazione di benessere anche quando svolto non in presenza.
E’ disponibile inoltre un servizio di consulenza online per expat specificatamente dedicato alle esigenze di coloro che risiedono all’estero.
Primo colloquio esplorativo gratuito.
Per approfondire:
colloqui di counseling di che si tratta?
studio psiché – consulenze online
studio psiché – counseling online per expat
NOTE
* nel conseling si usa la definizione cliente e non paziente, ad indicare che il focus del percorso non è la cura della patologia psichica, ma l’incremento delle forze di reazione sane dell’individuo.
** Gestalt, Analisi Transazionale, Bioenergetica.
***GENTE COMUNE (Ordinary People) – di R. Redford, con D. Sutherland, M. Tyler Moore, T. Hutton; 1980, US, premio Oscar 1981. Tratto dal romanzo di J. Guest GENTE SENZA STORIA, 1979.
BIBLIOGRAFIA
Danon M. – COUNSELING. L’ARTE DELLA RELAZIONE D’AIUTO ATTRAVERSO L’EMPATIA – RED, Como, 2009
May R. – L’ARTE DEL COUNSELING – Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1991
Rogers C. – PSICOTERAPIA DI CONSULTAZIONE – Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1971
Stevens B., Rogers C. – DA PERSONA A PERSONA – Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1987